Campagne umbre ed emigrazione all’estero
in “La terra delle promesse” di Luciano Tosi, Foligno, Electa, 1989.

Rimasta nei suoi tratti fondamentali sostanzialmente immutata da quella che era nel periodo preunitario, la società umbra appariva intorno al 1880 caratterizzata da un tenace immobilismo, a sua volta causa ed effetto di una arretratezza economica, sociale e politica. Asse portante dell’economia era l’agricoltura, che però versava in condizioni di estrema arretratezza: la proprietà della terra era per la maggior parte concentrata nelle mani di pochi proprietari, interessati solo al mantenimento dello statu quo politico e sociale; strettamente connesso alla grande proprietà, frazionata e povera di capitali, era l’istituto mezzadrile, il rapporto di conduzione più diffuso della regione. La produzione era assai scarsa e le rese assai basse e non sembra vi siano stati aumenti sostanziali nei due decenni postunitari.

Un intervento che, operato dal nuovo stato unitario, ebbe riflessi su vasta scala in Umbria, fu il prelievo fiscale, la cui forte crescita nei primi decenni unitari contribuì ad un impoverimento progressivo della regione e dei contadini in particolare. In tema di interventi esterni nell’economia della regione è da menzionare la creazione da parte dello stato del polo industriale ternano che, in tempi non brevi ma nell’arco di due-tre decenni, fece sentire la sua influenza in un’area abbastanza vasta che abbracciava comuni anche dal circondario di Spoleto e Rieti; si determinò così in queste zone un miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti, miglioramento testimoniato tra l’altro dalle percentuali migratorie dei comuni sparsi intorno l’area ternana, che sono tra le più basse della regione. Alla politica economica e finanziaria dello stato unitario si aggiunsero intorno agli anni novanta quelli provocati dalla crisi agraria e dalla svolta protezionistica che ne seguì; un malessere nuovo pervase allora le campagne umbre fino ad allora quiete anche se oppresse. Gli “equilibri del non sviluppo” incominciavano ad essere intaccati e cominciava ad essere scossa la tradizionale rassegnazione della gente nei campi. Ne era un sintomo la comparsa dell’emigrazione all’estero.

I primi timidi accenni a trasformazioni socio-economiche apparsi verso la metàegli anni novanta, sotto la spinta in particolare della crisi agraria, giunsero a maturazione tra l’inizio del Novecento e lo scoppio della prima guerra mondiale. In tale contesto di cambiamenti notevoli ma insufficienti ai bisogni di una popolazione in crescita, l’emigrazione esplose, raggiungendo valori assai elevati: tra gli inizi del secolo e lo scoppio della guerra il numero degli espatri annui dall’Umbria si assestò intorno ad una media di 10.000 unità all’anno. Le cause “endogene”di questo fenomeno sono molteplici ma strettamente correlate tra di loro: a quelle demografiche si aggiungono quelle economiche e quelle culturali; in linea generale si può dire che le aree maggiormente interessate al fenomeno appaiono le zone agrarie di media montagna cui fanno seguito quelle di alta montagna e quelle di colle-piano. L’emigrazione traeva alimento principale dal peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di vari strati della popolazione agricola e operaia oltre che dalle capacità recettive del mercato del lavoro internazionale; lentamente i contadini acquistarono sempre più coscienza della loro situazione di miseria e sfruttamento e per modificarla cominciarono a mettere in atto comportamenti alternativi a quelli tradizionali, fatti di rassegnazione o di protesta sorda e ribellistica. Con gli anni era venuto rompendosi l’isolamento del podere ed erano aumentati i contatti del contadino col mondo esterno; a mettere in crisi il modello di vita tradizionale non è però solo il desiderio di migliorare la qualità della vita, ma anche il rifiuto di valori tradizionali e l’acquisizione di nuovi, ad esempio l’opprimente struttura della famiglia patriarcale veniva sempre più rifiutata dalle giovani generazioni. Con l’emigrazione, dunque, i contadini esprimevano il rifiuto della propria condizione e tentavano di migliorarla.
La cornice internazionale entro cui si colloca il maggior sviluppo della vicenda emigratoria umbra è quella di un mercato internazionale del lavoro in fase di massima recettività.
Le scelte verso l’una o l’altra destinazione, nella latitanza quasi totale degli organi di assistenza dello Stato, avvennero quasi esclusivamente sulla base di autonome osservazioni degli emigranti frutto a loro volta di esperienze maturate a prezzo di sofferenze e disillusioni. Fin dall’inizio dell’esperienza emigratoria umbra erano presenti nella regione le due principali direttrici “transoceanica e continentale” su cui si sviluppò l’esodo della gente umbra.

I primi flussi migratori di una certa consistenza che si originarono dalla regione si diressero oltre oceano; essi, tra la fine degli anni 80 e la fine del secolo, costituirono la quasi totalità del flusso emigratorio umbro. In quel periodo l’emigrazione umbra si diresse in maggior misura in Brasile e in Argentina, ma si trattò di un flusso molto modesto, che non superò mai le 200-300 unità all’anno. Nel periodo successivo invece si accrebbe il flusso emigratorio umbro verso gli Stati Uniti. Come spesso accade, anche l’emigrazione umbra, per effetto dei richiami dei primi emigranti, si indirizzò verso mete ben definite. Già nel 1902 il vice console italiano a Philadelphia segnalava colonie umbre caratterizzanti la presenza italiana in alcune località minerarie della Pennsylvania nord orientale; consistenti nuclei di emigranti umbri si diressero inoltre anche nel Michigan e nel Minnesota dove trovarono lavoro nelle miniere di ferro. Dunque appare decisiva nella scelta dei luoghi di emigrazione degli umbri la loro preferenza per i lavori nelle miniere, preferenza che si manifestò, assai nettamente, anche nei mercati del lavoro europei; gli umbri, proprio per la loro abitudine di lavoro nelle miniere, molto spesso riuscivano a diventare lavoratori semi-skilled o skilled, funzionali ai nuovi assetti di produzione che il capitalismo americano si stava dando. A parità di altre condizioni essi erano preferiti dalle compagnie minerarie perchè erano disponibili per i lavori più continuativi e più rischiosi nelle miniere.

Fin dall’inizio dell’esperienza emigratoria umbra, accanto al flusso transoceanico ce ne fu un altro, diretto verso i paesi europei, la cui entità si mantenne pressochè inalterata fino alla fine del secolo con circa 100-200 partenze all’anno. Agli inizi del Novecento, in coincidenza anche con la ritrovata capacità attrattiva delle economie europee e con la crisi degli sbocchi sudamericani, l’emigrazione umbra verso i paesi europei compì un salto qualitativo e quantitativo; a fronte dei 2.000-3.000 emigranti umbri transoceanici vi furono i 7000-8000 diretti paesi europei. Le emigrazioni per destinazioni europee erano in prevalenza stagionali anche se, specie negli ultimi anni del periodo in esame, la durata del soggiorno all’estero prese ad allungarsi e non furono infrequenti i casi di emigrazione definitiva. Con il passare degli anni, e specie verso la fine del periodo in esame, la mobilità degli emigranti aumentò notevolmente: ci si spostava alla ricerca di un lavoro più remunerativo anche da un paese all’altro e non infrequente fu il caso di chi, dopo aver lavorato nelle miniere di Francia o Germania, si diresse negli Stati uniti. In ciò si era facilitati dall’estrema libertà di movimento vigente in Europa sino allo scoppio della prima guerra mondiale.
L’avvio dell’esperienza migratoria umbra in Europa è in particolare segnato dal flusso di emigranti diretti in Francia e più precisamente in Costa Azzurra. E’ un’emigrazione che specie inizialmente presenta molti caratteri della emigrazione stagionale interna invernale. I piccoli proprietari e soprattutto i mezzadri, che potevano assentarsi dalle loro terre solo d’inverno, trovavano infatti nelle località della Costa Azzurra possibilità di lavoro anche in questa stagione e, inoltre, nel settore in cui di solito lavoravano, cioè quello agricolo. Solo all’inizio del Novecento il flusso emigratorio umbro per la Francia si fece massiccio attestandosi intorno ai 2000-3000 espatri all’anno.
Nel frattempo alcune caratteristiche del flusso migratorio vennero lentamente modificandosi e il flusso stesso prese a perdere i connotati più tipici dei flussi migratori agricoli d’ancien règime e ad acquistarne altri alcuni propri delle moderne emigrazioni. Iniziò inoltre a manifestarsi un mutamento dei caratteri dell’emigrazione che da temporanea si andava trasformando per molti sempre più spesso in definitiva.
Tuttavia i lavori agricoli non furono i soli a cui gli emigranti umbri in Costa Azzurra si dedicarono. Nel corso del periodo in esame anzi l’emigrazione in Francia per lavori agricoli, pur restando forte, prese a diminuire rispetto al grosso dell’emigrazione regionale; aumentò il numero di coloro che erano diretti verso i centri urbani della Costa Azzurra anche nelle zone limitrofe come Tolone e Marsiglia. La nuova emigrazione si svolgeva in genere tra marzo e settembre. Molti umbri si dedicarono a lavori di manovalanza generica nei numerosissimi cantieri pubblici e privati. Ma molti altri fecero altre e ben precise scelte occupazionali: domestici, cuochi, camerieri di caffè e d’albergo e soprattutto balie di origine umbra contendevano il primato delle presenze agli emigranti di altre regioni dediti agli stessi mestieri. Anche tra gli emigranti dediti a queste attività tendeva a diffondersi l’emigrazione definitiva.

La Francia, con circa 37.000 espatri dalla regione tra il 1900 e il 1914, fu la meta preferita degli emigranti umbri; nello stesso periodo però si registrarono quasi 32.000 espatri per la Germania, più di 27.000 per la Svizzera, 7500 per i paesi del Benelux e circa 6000 per l’Austria-Ungheria. Il proletariato umbro emigrante aveva ormai raggiunto una maturità che lo rendeva capace di orientare le proprie scelte al fine di massimizzare i frutti del proprio lavoro. Tra gli emigranti umbri si diffuse in modo prevalente il modello emigratorio già osservato negli Stati uniti; sempre più numerosi furono infatti gli umbri che si recarono a lavorare nelle miniere europee. L’emigrazione degli umbri in Germania e in Svizzera presenta marcatamente il carattere di diaspora. In questi paesi essi si disperdevano per mille destinazioni soprattutto perchè seguivano il continuo nuovo dislocarsi dei cantieri. Sul finire del periodo in esame dall’Umbria cominciò a dirigersi verso la Svizzera una notevole corrente di emigrazione femminile proveniente essenzialmente dal perugino e dai comuni attorno al lago Trasimeno. Tale emigrazione scontava la crescente scomparsa della manifattura domestica e la crisi dell’industria serica e tessile locale ed era favorita da un crescente sviluppo della stessa industria in Svizzera. Essa esprimeva tuttavia anche l’aspirazione delle donne umbre ad una emancipazione molto spesso negata o impossibile da conquistarsi nelle campagne della regione; l’età media delle emigranti si aggirava tra i 14-20 anni.

In Umbria i livelli raggiunti dal fenomeno emigratorio in età giolittiana non furono toccati in seguito; dopo la fine del primo conflitto mondiale, tra il 1919 e il 1920, l’emigrazione conobbe una forte ripresa. Seguì, nel 1921, una brusca pausa di riorientamento e un successivo periodo di crescita culminato nel 1924. Dopo un’ultima impennata tra il 1929 il 1933, si ebbe un progressivo declino del fenomeno fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Riprese invece con vigore l’emigrazione interna. Ancora una volta, all’origine dell’emigrazione all’estero, c’erano soprattutto le precarie condizioni economiche della regione che nel ventennio fascista non presentarono mutamenti di rilievo rispetto al periodo precedente, nonostante un certo sviluppo del settore industriale. Si ebbe una ridefinizione dei luoghi di destinazione, con un aumento degli espatri per i paesi europei. Le tradizionali metri d’oltre oceano, in particolare il Nord America, furono infatti precluse dalla politica restrittiva posta in essere dagli Stati uniti con i noti provvedimenti del 1921 e del 1924. Crebbero pertanto gli espatri verso i paesi dell’America Latina anche se in misura modesta a causa dei pesanti vincoli strutturali di quei mercati del lavoro, e crebbero soprattutto gli espatri verso i paesi europei. Gli umbri si diressero in misura crescente verso le tradizionali mete continentali, con l’esclusione di Germania e Austria le cui economie erano uscite prostrate dalla guerra. Modesto fu invece il contributo degli umbri al flusso migratorio verso le colonie africane.
Dopo la seconda guerra mondiale l’emigrazione umbra all’estero conobbe un ulteriore ripresa, a seguito delle profonde trasformazioni economiche e sociali che negli anni ’50 e ’60 investirono tutto il paese e nella regione sconvolsero equilibri rimasti a lungo sostanzialmente inalterati. Alla riconversione industriale postbellica si accompagnò la crisi dell’agricoltura; ciò portò a un processo di deruralizzazione e di urbanizzazione. L’emigrazione all’estero fu minoritaria rispetto all’emigrazione intra ed extraregionale. Ai flussi provenienti dalle tradizionali zone di emigrazione, come la dorsale appenninica, l’Alta e Media Valle del Tevere, se ne aggiunsero altri originati dall’orvietano e dall’Umbria sud occidentale, aree dove il fenomeno era stato fino ad allora poco diffuso. La gran parte degli emigranti si diresse ancora una volta verso la Francia, il Lussemburgo e la Svizzera. Con questi paesi l’Italia dopo la fine del conflitto aveva stipulato accordi intesi a favorirvi l’emigrazione di manodopera italiana. Alla fine degli anni ’50, la nascita della Comunità Economica Europea e una buona congiuntura economica dei paesi industrializzati dell’Europa centrale favorirono la crescita dell’emigrazione verso la Svizzera e la Germania; modesti flussi emigratori si indirizzarono verso l’America meridionale, il Canada e l’Australia.

Gli umbri erano sparsi ormai in ogni angolo del pianeta allorchè, nel corso degli anni 70, il flussi emigratori della regione cominciarono a ridursi fino a scomparire quasi del tutto. Il tempo dell’esodo era finito.