Emigrazione e immigrazione nella storia della società italiana
in “Maccaronì e Vù Cumprà”, mostra documentaria a cura di Emilio Franzina, Milano, Teti editore.
Ieri e oggi, Italia ed Europa, vita quotidiana e memoria storica, esperienze vissute ed esperienze narrate, partenze e arrivi, migrazione ed esilio…ma soprattutto il presente, con tutte le sue contraddizioni: come si coniugano questi elementi’ L’Italia, da sempre terra di emigranti, è ora – e in parte suo malgrado – paese di accoglienza: nelle attuali vicende migratorie si intersecano e si fondono componenti diverse. E’ la memoria personale, troppo spesso repressa, la memoria di percorsi talvolta tragici, talvolta pieni di successo, che costituisce il terreno su cui cresce e si modella il presente. Ma a volte è una memoria rifiutata, o, peggio ancora, volontariamente travisata: questa memoria deve essere ravvivata, deve riacquistare la sua interezza, la sua complessità in un costruttivo rapporto con il presente, con le profonde trasformazioni in corso nella nostra società. E’ proprio la mobilità che ci permette l’incontro/scontro di culture, gli italiani che emigrarono nei decenni passati ad esempio, portarono nel luogo d’arrivo le loro abitudini, i loro prodotti, il loro “saper fare” (pensiamo soltanto alla diffusione della pizza o della pasta in tutti i continenti e in primo luogo in America). Così oggi gli immigrati provenienti dall’Oriente ci propongono la cucina cinese e i maghrebini ci insegnano l’arte del cous-cous. Fanno lavori che gli italiani non fanno, abitano case che gli italiani non abitano, costruiscono sul nostro vecchio continente nuovi spazi, pur senza alterare quelli precedenti.
Rispetto agli “antichi” emigranti italiani che si figuravano l’America come “paese di Cuccagna”, per molti degli immigrati potenziali del Terzo Mondo il mito dell’Italia si è propagato attraverso la ricezione dei programmi televisivi italiani o attraverso i viaggi dei turisti occidentali o i racconti degli “edulcorati” dei loro connazionali, che veicolano dell’Italia un’idea di paese felice e ricco, aperto e disponibile. Sono gli immigrati cinesi i primi ad arrivare in Italia. Il primo nucleo risale al periodo fra le due guerre, al quale segue una seconda ondata intorno agli anni Sessanta. Negli anni Settanta giungono le prime domestiche straniere, numerose provenienti dalle ex colonie dell’Africa orientale italiana. Nello stesso periodo arrivano consistenti gruppi di rifugiati politici (brasiliani, successivamente cileni, argentini, vietnamiti). L’Italia è un mito per chi arriva dai paesi dell’Est europeo, dall’Albania soprattutto, dove si pensa che al di là di quello stretto braccio di mare ci sia la possibilità di un riscatto sociale. E così si parte su zattere improvvisate, su navi sovraccariche, su imbarcazioni di fortuna, convinti di lasciarsi alle spalle frustrazioni e mancanza di prospettive. Ma cosa succedeva ieri e cosa succede oggi quando, attraversato l’oceano, il mediterraneo o percorsi i lunghi cammini che dall’Oriente attraverso la Russia e zone di guerra portano fino a noi, l’emigrante si trova di fronte ad una società tutt’altro che accogliente’ Sono la delusione e il senso di impotenza i sentimenti forse più dolorosi, cui si accompagna la rabbia per essere stati tanto clamorosamente ingannati. C’è tanta solitudine; manca per lo più un lavoro sicuro e regolare; l’estraneità non sembra superabile in questo nuovo ambiente. Conseguenza di questo disagio, ieri come oggi, è la formazione di comunità di connazionali isolate rispetto al nuovo contesto.
Nei luoghi di arrivo l’immigrazione viene vissuta come temporanea: ci si illude che tutti al momento opportuno torneranno spontaneamente al loro paese e che nel frattempo non esigeranno il rispetto dei loro diritti, che dimenticheranno famiglia, cultura e tradizione, si spoglieranno di qualsiasi individualità per mettersi al servizio incondizionato dei nuovi padroni. Chi mai, nei momenti di maggior tensione fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, avrebbe pensato che un giorno gli italiani in Francia sarebbero stati considerati a tutti gli effetti francesi’ L’emigrazione, da un lato fece aumentare la sensibilità dell’opinione pubblica per le tragiche condizioni i dei migranti, dall’altro spinse le autorità politiche e amministrative ad una diversa attenzione al problema.Gradualmente si incominciò, anche da parte francese, a pensare l’immigrazione in termini di persone, di esigenze e, perché no, di garanzie. Oggi, in Italia, sta succedendo forse la stessa cosa: l’agricoltura, l’edilizia, il lavoro domestico, le attività industriali più pesanti chiamano manodopera; ma non può pensare che quelle persone che hanno varcato il Mediterraneo in condizioni spesso tragiche e disumane possano semplicemente perché e quando lo vogliamo noi, ritornare come se nulla fosse successo al loro paese. Ma, se questa illusione è profondamente miope, è altrettanto vero che essa aiuta il processo d’integrazione perché da un lato attutisce i conflitti nella convinzione della temporaneità, dall’altro fa si che gradualmente culture diverse si conoscano e si confrontino, che si scoprano, dietro alla pelle scura degli africani o dietro la lingua strana degli europei dell’Est, mondi affascinanti, tradizioni secolari, vestigia di passati gloriosi e di culture mai sopite. E così lentamente – anche se in modo certamente non indolore – si impara a conoscersi, ad accettarsi, a stimarsi, nel lungo cammino verso la convivenza.
L’emigrato non può contare nemmeno sulla solidarietà “istituzionale”. In passato l’intervento delle nostre autorità è stato riluttante a proporsi come rappresentante di una massa di diseredati, incolti e spesso turbolenti. Anche l’organizzazione consolare è stata una presenza inconsistente, sempre di facciata, conduceva vita separata dagli immigrati, accampando il pretesto “ipocritamente diplomatico” – secondo la definizione di Ercole Sori – di non voler creare fastidi al governo italiano. Forse fu il fatto che col tempo i ruoli si definiscono, forse fu il cambiamento di regime,la situazione sembrò modificarsi nel periodo fra le due guerre, quando ben più incisivo divenne il ruolo delle nostre autorità. Era in gioco l’immagine pubblica della nazione, erano in gioco diaspore che si sarebbe voluto riassorbire; erano in gioco dissensi che non si sarebbero voluti ammettere. E fu così che sulla base del principio espresso dal regime secondo il quale in materia di emigrazione si rendeva improcrastinabile il recupero spirituale delle comunità italiane all’estero, la presenza del governo e la sua attenzione verso quella appendice italiana in terra straniera fu sicuramente più evidente che nei decenni precedenti. Ma certamente gli obbiettivi non erano quelli (o per lo meno soltanto) di agevolare la quotidianità e il futuro di chi era stato costretto ad abbandonare la propria casa: si voleva piuttosto garantire che nessuna risorsa in termini di energie e di idee, di rimesse e di consensi, potesse essere sottratta. Allo stesso modo oggi le autorità consolari straniere in Italia non si propongono come tramite, come elementi di mediazione fra le culture, le esigenze, le abitudini del paese di origine e la nova realtà con la quale l’immigrato è costretto a misurarsi; per lo più concentrano la loro attività sul disbrigo delle pratiche burocratiche, e anche questo non sempre in modo asettico. In questo contesto una sorta di attività di supplenza rispetto alle carenze ufficiali viene spesso svolta da associazioni volontarie. Erano soprattutto di stampo religioso, ma anche di ispirazione socialista, quelle che sostennero gli italiani nel grande esodo del secolo scorso. Oggi associazioni volontarie, religiose e laiche, si occupano dell’accoglienza e dell’inserimento degli stranieri. Le iniziative che partono dal paese di origine sono pressoché esclusivamente di stampo religioso – le moschee soprattutto – e hanno come obbiettivo non tanto l’inserimento, o la soluzione dei problemi quotidiani degli immigrati, quanto piuttosto la conservazione dell’identità culturale e religiosa. Gli interventi di tipo sociale si limitano per lo più ad attività assistenziali, dalla distribuzione di pasti o di generi alimentari alla raccolta di abiti. Comunque ci si impegna sempre nell’ottica della non dispersione della comunità di appartenenza: si paga il biglietto di ritorno a chi non dispone di denaro sufficiente, si rimpatriano le salme, e così via. E questa ottica non deve stupire in quanto non è che il prodotto del percorso fino ad oggi compiuto in quei paesi, dove – mantenendosi nell’ambito esemplificativo di quelli islamici – è per lo più assente sul territorio nazionale una tipologia di intervento che non sia di stampo religioso e dove la soluzione dei conflitti passa attraverso le decisioni delle autorità costituite e non attraverso una mediazione democratica. Per i problemi dell’inserimento nella società e nel mondo del lavoro, l’immigrato deve così rivolgersi a gruppi, associazioni e istituzioni del paese ospitante. Sono, queste, solidarietà che si costruiscono sui rapporti interetnici, fra chi arriva e chi, nella società di accoglienza si adopera per contribuire al superamento di barriere, sia sul piano dell’organizzazione pratica, sia su quello della conoscenza della lingua, di cultura, di abitudini. Su tempi più lunghi, questo tipo di solidarietà lavora nella direzione della conoscenza reciproca e quindi della messa a punto di soluzioni di convivenza. E’ una solidarietà che si rivela perciò vantaggiosa per entrambe le parti, anche se spesso di questi vantaggi non c’è consapevolezza.
Un altro elemento ricorrente nella storia dei movimenti migratori è costituito dalle manifestazioni d’intolleranza, xenofobia e razzismo. Gli italiani furono i più malvisti tra gli immigrati, accusati di essere “uccelli di passaggio”, di deprimere il livello dei salari e di favorire con comportamenti illegali l’incremento della criminalità. La nomea di mafiosi e di camorristi finì così per essere applicata a tutti i meridionali approdati negli Stati Uniti, a causa del coinvolgimento di alcuni di loro in attività illegali. La conseguenza fu che un po’ dovunque, dalla Francia all’Argentina, dal Nord America al Brasile, gli italiani si trovarono vittime di violenze gratuite. E allo stesso modo oggetto di persecuzione e di rifiuto sono spesso le migliaia di persone che arrivano nella nostra penisola. Anch’essi si sono proposti come lavoratori; non solo lavavetri o venditori ambulanti, ma anche disposti ad occupare i posti lasciati vacanti dalla manodopera italiana: operai di colore impiegati nelle attività industriali più pericolose, i muratori, i manovali dell’Est e dell’ex Jugoslavia e gli stranieri reclutati nelle campagne del Mezzogiorno per lavori agricoli spesso del tutto al di fuori delle norme assicurative e previdenziali. Anche nei loro confronti troppo spesso sono scaturite forme di razzismo. La causa sembra essere il lavoro, lo spauracchio della concorrenza, e soprattutto un pretesto per sfogare la propria insoddisfazione. Ma oggi anche nuovi razzismi si affacciano sulla scena sociale, dove l’elemento del lavoro non è più l’unico e spesso neppure il più importante: sono l’appartenenza etnica e il credo religioso gli elementi scatenanti le odierne violenze.
Se un’omogeneità di fondo sembra accomunare gli immigrati di ieri e di oggi, differenze profonde si manifestano invece fra i loro figli, con la seconda generazione. E’ questa a compiere scelte definitive, trascinando anche chi aveva tentato l’avvenuta migratoria sperando in un ritorno, ed è di fronte alla seconda generazione che le società di accoglienza rivelano la vera forza delle democrazie. I figli degli emigranti italiani nati in Francia o arrivati in quel paese in tenera età crebbero a tutti gli effetti francesi. Molti studiarono; il loro modo di vita spesso cambiò rispetto a quello di padre e madre, e una certa mobilità sociale confermò ancor più la loro assonanza con il nuovo contesto. Divenne evidente che dalla Francia non se ne sarebbero mai andati: ed è per questo che anche i genitori, più riluttanti all’inizio, a un certo punto decisero di dare un addio definitivo al paese di origine e di restare con i loro figli, compiendo quel passo che avevano rifiutato per tutta la vita, la naturalizzazione. E neppure l’ondata migratoria che ha investito l’Italia in questi anni sembra prospettare nuovi percorsi. I ricongiungimenti familiari sono sempre più numerosi e i loro bambini cresceranno italiani, parlando l’italiano e imparando la storia del popolo italiano, troppo spesso dimenticando la loro, sotto gli occhi impotenti dei genitori. Ma qui cominciano le differenze. La seconda generazione degli italiani emigrati non ha conosciuto il sapore amaro del rifiuto, si è mescolata nel contesto e ne è diventata parte integrante. Invece i figli dei turchi e dei maghrebini, degli asiatici che hanno raggiunto l’Europa nel secondo dopoguerra, facilmente individuabili per i loro caratteri somatici, ma soprattutto espressione di culture diverse e di tradizioni diverse, vivono una situazione di doppio rifiuto: quello del paese di origine, che non può più riprenderli e quello del paese che essi non sanno considerare se non come il proprio paese. Sempre più frequenti nei loro confronti sono le manifestazioni di xenofobia. Si tratta di razzismo su base etica e culturale, che in gran parte riflettono la sempre più accentuata frattura tra sud e nord del mondo, tra cristiani e musulmani, tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. Lo straniero non trova in questa società un referente che lo aiuti nella sua rivendicazione di diritti, primo dei quali la cittadinanza che i governi europei sono sempre più restii a concedere. Il dibattito sul significato di “assimilazione” e/o di “integrazione” è ancora aperto. In ogni caso l’assimilazione non dovrebbe essere un obiettivo da perseguire con intenti discriminatori. Essa prevede gradi intermedi non ancora realizzati fra noi: accoglienza, accettazione, adattamento e integrazione, e richiede azioni positive nei confronti sia degli autoctoni sia degli stessi stranieri.